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SALOTTO DI SCRITTURA CREATIVA
L'ARTE DI SCRIVERE
(di Mariagrazia Vitale)
COME RACCONTARE UN EPISODIO DELLA NOSTRA VITA O DELLA NOSTRA FAMIGLIA

PERCHE' RACCONTARE
Tutti noi abbiamo le nostre storie da raccontare. Siamo venuti al mondo nel mezzo di una storia familiare e siamo diventati i protagonisti di un’altra storia, quella nostra.  Vi sono momenti nella nostra vita in cui alcuni episodi che ci sono accaduti prendono forma e allora ci viene voglia di raccontarli a chi ci sta accanto, ai figli, ai nipoti, ai parenti, magari per dimostrare la differenza di modo di vivere della nostra generazione e della loro. Ogni fase che abbiamo attraversato nella nostra vita, ogni scelta che abbiamo fatto e ogni episodio a cui abbiamo assistito sono da ritenere importanti perché sono un frammento di una storia più vasta in cui noi siamo osservatori e partecipanti. 

Moderni psicoterapeuti sostengono che scrivere i propri ricordi è un atto liberatorio. Non occorre essere scrittori per scrivere e raccontare le proprie memorie, ci vuole solo un foglio bianco e una penna. Se mio nonno emigrante in Argentina avesse lasciato qualche appunto sulla sua vita oltre quelle poche lettere che sono riuscita a rintracciare e che mi sono servite per costruire un romanzo, io avrei avuto altre e più importanti informazioni magari sul suo stato d’animo in una terra straniera, sulle sue difficoltà a dialogare in una lingua diversa dalla sua, avrei insomma conosciuto meglio un personaggio di cui ho sempre sentito parlare sin da quando ero bambina.

Di solito la ricerca sulla propria famiglia si fa con le fotografie. Prendiamo i vecchi album e osserviamo i nostri nonni, i genitori, gli amici e ce li immaginiamo tutti in bianco e nero, come se in quei tempi lontani non esistevano i colori. Una fotografia è un istante temporale catturato nel bel mezzo di una vita che esisteva già prima e che è proseguita dopo lo scatto. E’ un’istantanea fatta in una frazione di secondo che ci mette in contatto con persone che ci osservano da un’altra epoca. Tutte le foto hanno delle storie da raccontare e, osservando i vestiti, gli ambienti interni o esterni, i paesaggi, si possono capire i dettagli delle storie di gente che ha vissuto solo un po’ prima di noi. Non solo le foto però ci riportano al passato, anche i manufatti, i ricami, gli oggetti antichi che conserviamo gelosamente nelle nostre case, molte sono le cose che ci ricordano chi ci ha preceduto.

IL RACCONTO
Ora però ci soffermeremo su una cosa semplice: il racconto. Se vogliamo raccontare un episodio, se vogliamo costruirci un racconto, come dobbiamo fare? Che struttura dare al nostro racconto?

Partiamo da una frase che abbiamo sentito ripetere in famiglia o da qualsiasi altra cosa che ci fa venire in mente una storia da raccontare, potrebbe essere una foto, un luogo, una sensazione o qualsiasi altra cosa.  Ci sono dei dati  che devono essere decisi in anticipo: il periodo storico in cui si è svolto il fatto, il luogo di ambientazione, il ruolo del personaggio principale e degli altri personaggi. Il racconto richiede soltanto un’idea, è un flash, è come fermare una storia, che potrebbe essere molto più lunga. Contrariamente a quanto si pensa, è molto più difficile scrivere racconti che romanzi. Se il romanzo può essere paragonato a un viaggio in autostrada, il racconto è l’esplorazione di un luogo più piccolo come potrebbe essere una casa o un cortile. Ecco un semplice specchietto su come andrebbe strutturato un racconto completo.

STRUTTURA DEL RACCONTO
ESORDIO
L’esordio del racconto illustra una certa situazione  che ci spinge a riflettere e che dovrebbe attirare l’attenzione e incuriosire.

SVILUPPO
Lo sviluppo è la parte più corposa del racconto, quella in cui si svolgono gli eventi principali che danno spessore alla storia. Nello sviluppo vanno raccontati i fatti non normali, quelli che genereranno il conflitto. Per esempio, ci possono essere due personaggi che s’innamorano nonostante l’opposizione dei genitori. Ci potrebbe essere anche un giallo da raccontare o semplicemente un ricordo simpatico che viene ripetuto in famiglia. Lo sviluppo ha lo scopo di ampliare la vicenda e svolgere l’intreccio della storia attraverso l’uso di alcuni elementi quali: 1) delineazione dei personaggi, che pian piano prendono forma e carattere; 2) attribuzione a ciascun personaggio della sua specifica funzione narrativa: chi è il protagonista, chi l’antagonista, l’aiutante, la comparsa, ecc.; 3) utilizzo di flash-back per raccontare eventi passati che siano ricollegati alla vicenda; 4) descrizione degli ambienti in cui si svolgono le vicende: serve a contestualizzare i personaggi nello spazio e nel tempo caratterizzandoli meglio; 5) mantenimento della suspense ritardando lo scioglimento finale; 6) inserimento di dialoghi, azioni, riflessioni, chiarimenti dei fatti narrati.

CONCLUSIONE
Il finale può essere di vario tipo:
- a sorpresa: ribaltando le premesse e le aspettative del lettore;
- aperto: non c’è una vera e propria conclusione e molto viene lasciato all’immaginazione.

UN ESEMPIO
Guardiamo ora un semplice episodio che ci è stato raccontato da una signora di mezza età, Francesca Ottoveggio:

<< Una mia zia s’ innamorò di un giovane che al padre di lei non piaceva e lo volle sposare  a tutti i costi. Il marito non aveva molta voglia di lavorare e “Lu travagliu  stava davanti e iddu stava sempri d’arreri.”  Per di più, erano ppena sposati quando lui cominciò a malmenarla e per questo motivo mia zia Anna andò a piangere dal padre. Questi disse alla figlia una frase che fu ripetuta poi in famiglia ogni volta che qualcuno voleva fare di testa propria: <<Annicchiuzza, ti lu maritasti, ora tenitillu!>>

Come possiamo fare diventare quest’episodio un racconto? Proviamoci. Intanto creiamo un esordio che ci spinga a raccontare come avvennero i fatti, poi con la fantasia immaginiamo le varie sequenze.

<<Nella mia famiglia ogni volta che qualcuno commette degli errori disubbidendo ai consigli di chi è più anziano e quindi in grado di capire e prevedere meglio gli avvenimenti futuri, si usa ripetere una frase divenuta storica perché pronunziata da mio nonno, il capostipite della famiglia. La frase di per sé non è originale, anzi si tratta di un’espressione usuale nella nostra terra di Sicilia, la sua originalità sta nell’aggiunta del nome della persona a cui è riferita, un nome volutamente storpiato e utilizzato in modo sarcastico e denigratorio. Ma, per comprendere bene come si è svolta la vicenda, dobbiamo risalire all’epoca in cui essa si è svolta e capire anche la mentalità dei personaggi della vicenda.

Anna era da giovane una ragazza molto piacente. Gli occhi scuri e penetranti, la lunga chioma nera ondulata lasciata libera sulle spalle, la bocca deliziosamente dipinta a forma di cuore, la rendevano attraente agli occhi dei tanti giovanotti che s’innamoravano di lei al primo sguardo. Per di più aveva un portamento altero e un simpatico modo di camminare tanto che avrebbe potuto fare l’indossatrice, se i tempi fossero stati diversi, naturalmente.

Anna però abitava in Sicilia in un paese ancora culturalmente arretrato dove il padre decideva per tutti e dove i figli mai avrebbero tentato di opporsi alle sue decisioni. Salvatore, il padre, su  questa figlia aveva cominciato a nutrire forti ambizioni.<< Annuzza avi a studiari!- diceva- avi a fari la maestra di scola !>>

Annuzza era brava a scuola, era già avanti con gli studi e presto avrebbe preso il diploma di maestra. Ma che successe a un certo punto della storia? Successe che la brava e bella Anna s’innamorò. Va bene, è giusto che ad un certo punto della vita una giovane s’innamori, rientra nell’ordine naturale della vita. Ma la cosa che fece fremere di rabbia i genitori di Anna, i miei nonni, e soprattutto la cosa che fece saltare la mosca al naso a mio nonno fu il fatto che Anna, che avrebbe potuto mirare in alto e fare un buon matrimonio, si era innamorata di un giovane scapestrato, un poco di buono, uno che non l’avresti dato come marito neanche all’ultima ragazza che c’è sulla faccia della terra.

<<Tu a  me figghia l’ha lassari stari!>> disse mio nonno al giovane quando vide che stava un po’ troppo sotto le sue finestre. E da quel momento in poi cominciò a tenere la figlia sotto chiave. Niente più scuola, niente passeggiate con le amiche, niente uscite da casa per nessun motivo.

Anna però era innamorata. Il giovane era sempre nei suoi pensieri e s’immaginava felice con lui in un continuo idillio che la vita matrimoniale avrebbe consolidato. Non volle sentire ragioni. Riuscì con uno stratagemma ad eludere la sorveglianza della madre e una notte raggiunse l’innamorato a casa sua. Fu la cosiddetta fuitina. Il padre alla fine fu costretto a cedere e a dare l’approvazione per il matrimonio.

Anna si sposò con il suo innamorato e per un certo tempo tutto sembrava andasse bene. Sembrava. In realtà il marito di Anna era un tipo geloso oltre ogni limite e mia zia si accorse subito che c’era qualcosa che non funzionava nel suo matrimonio. Ogni giorno con una scusa la picchiava e la malmenava accusandola di nutrire delle simpatie per altri uomini. Anna non poteva frequentare neanche la sua famiglia, tanto forte era nel marito la gelosia nei riguardi di tutti quelli che avrebbero potuto distogliere Anna dal suo affetto morboso e malato. Dopo più di un anno di questa vita d’inferno, Anna scappò dalla casa coniugale e andò a piangere dal padre. Si mise in ginocchio davanti a lui, lo pregò piangendo e abbracciandogli le ginocchia.

 <<Patri, patri, pigghiami a la to casa!>>

Ed ecco la risposta di mio nonno: <<Annicchiuzza, ti lu maritasti, ora tenitillu!>>  In vita sua mai aveva chiamato la figlia Annicchiuzza. Anna, Annuzza, sì, ma mai Annicchiuzza. Il nonno usò allora un diminuitivo particolare  in tono dispregiativo e sarcastico, come se, chiamandola in questo modo volesse farle capire i suoi sbagli e le sue disubbidienze, le sue trasgressioni e il voler fare di testa propria. E’ per questo motivo che ancora oggi ripetiamo la frase del nonno e, ricordando la frase, cerchiamo di trasmettere l’insegnamento che è connesso ad essa. Non sempre le nostre scelte sono le migliori per la nostra vita.>>