COME RACCONTARE UN EPISODIO DELLA NOSTRA VITA O DELLA NOSTRA
FAMIGLIA
PERCHE' RACCONTARE
Tutti noi abbiamo le nostre storie da raccontare. Siamo venuti
al mondo nel mezzo di una storia familiare e siamo diventati i
protagonisti di un’altra storia, quella nostra. Vi sono momenti
nella nostra vita in cui alcuni episodi che ci sono accaduti
prendono forma e allora ci viene voglia di raccontarli a chi ci
sta accanto, ai figli, ai nipoti, ai parenti, magari per
dimostrare la differenza di modo di vivere della nostra
generazione e della loro. Ogni fase che abbiamo attraversato
nella nostra vita, ogni scelta che abbiamo fatto e ogni episodio
a cui abbiamo assistito sono da ritenere importanti perché sono
un frammento di una storia più vasta in cui noi siamo
osservatori e partecipanti.
Moderni
psicoterapeuti sostengono che scrivere i propri ricordi è un
atto liberatorio. Non occorre essere scrittori per scrivere e
raccontare le proprie memorie, ci vuole solo un foglio bianco e
una penna. Se mio nonno emigrante in Argentina avesse lasciato
qualche appunto sulla sua vita oltre quelle poche lettere che
sono riuscita a rintracciare e che mi sono servite per costruire
un romanzo, io avrei avuto altre e più importanti informazioni
magari sul suo stato d’animo in una terra straniera, sulle sue
difficoltà a dialogare in una lingua diversa dalla sua, avrei
insomma conosciuto meglio un personaggio di cui ho sempre
sentito parlare sin da quando ero bambina.
Di solito la
ricerca sulla propria famiglia si fa con le fotografie.
Prendiamo i vecchi album e osserviamo i nostri nonni, i
genitori, gli amici e ce li immaginiamo tutti in bianco e nero,
come se in quei tempi lontani non esistevano i colori. Una
fotografia è un istante temporale catturato nel bel mezzo di una
vita che esisteva già prima e che è proseguita dopo lo scatto.
E’ un’istantanea fatta in una frazione di secondo che ci mette
in contatto con persone che ci osservano da un’altra epoca.
Tutte le foto hanno delle storie da raccontare e, osservando i
vestiti, gli ambienti interni o esterni, i paesaggi, si possono
capire i dettagli delle storie di gente che ha vissuto solo un
po’ prima di noi. Non solo le foto però ci riportano al passato,
anche i manufatti, i ricami, gli oggetti antichi che conserviamo
gelosamente nelle nostre case, molte sono le cose che ci
ricordano chi ci ha preceduto.
IL RACCONTO
Ora però ci soffermeremo su una cosa semplice: il racconto. Se
vogliamo raccontare un episodio, se vogliamo costruirci un
racconto, come dobbiamo fare? Che struttura dare al nostro
racconto?
Partiamo da
una frase che abbiamo sentito ripetere in famiglia o da
qualsiasi altra cosa che ci fa venire in mente una storia da
raccontare, potrebbe essere una foto, un luogo, una sensazione o
qualsiasi altra cosa. Ci sono dei dati che devono essere
decisi in anticipo: il periodo storico in cui si è svolto il
fatto, il luogo di ambientazione, il ruolo del personaggio
principale e degli altri personaggi. Il racconto richiede
soltanto un’idea, è un flash, è come fermare una storia, che
potrebbe essere molto più lunga. Contrariamente a quanto si
pensa, è molto più difficile scrivere racconti che romanzi. Se
il romanzo può essere paragonato a un viaggio in autostrada, il
racconto è l’esplorazione di un luogo più piccolo come potrebbe
essere una casa o un cortile. Ecco un semplice specchietto su
come andrebbe strutturato un racconto completo.
STRUTTURA
DEL RACCONTO
ESORDIO
L’esordio del racconto illustra una certa situazione che ci
spinge a riflettere e che dovrebbe attirare l’attenzione e
incuriosire.
SVILUPPO
Lo sviluppo è la parte più corposa del racconto, quella in cui
si svolgono gli eventi principali che danno spessore alla
storia. Nello sviluppo vanno raccontati i fatti non normali,
quelli che genereranno il conflitto. Per esempio, ci possono
essere due personaggi che s’innamorano nonostante l’opposizione
dei genitori. Ci potrebbe essere anche un giallo da raccontare o
semplicemente un ricordo simpatico che viene ripetuto in
famiglia. Lo sviluppo ha lo scopo di ampliare la vicenda e
svolgere l’intreccio della storia attraverso l’uso di alcuni
elementi quali: 1) delineazione dei personaggi, che pian piano
prendono forma e carattere; 2) attribuzione a ciascun
personaggio della sua specifica funzione narrativa: chi è il
protagonista, chi l’antagonista, l’aiutante, la comparsa, ecc.;
3) utilizzo di flash-back per raccontare eventi passati che
siano ricollegati alla vicenda; 4) descrizione degli ambienti in
cui si svolgono le vicende: serve a contestualizzare i
personaggi nello spazio e nel tempo caratterizzandoli meglio; 5)
mantenimento della suspense ritardando lo scioglimento finale;
6) inserimento di dialoghi, azioni, riflessioni, chiarimenti dei
fatti narrati.
CONCLUSIONE
Il finale può essere di vario tipo:
- a sorpresa: ribaltando le premesse e le aspettative del
lettore;
- aperto: non c’è una vera e propria conclusione e molto viene
lasciato all’immaginazione.
UN ESEMPIO
Guardiamo ora un semplice episodio che ci è stato raccontato da
una signora di mezza età, Francesca Ottoveggio:
<< Una mia zia
s’ innamorò di un giovane che al padre di lei non piaceva e lo
volle sposare a tutti i costi. Il marito non aveva molta voglia
di lavorare e “Lu travagliu stava davanti e iddu stava sempri
d’arreri.” Per di più, erano ppena sposati quando lui
cominciò a malmenarla e per questo motivo mia zia Anna andò a
piangere dal padre. Questi disse alla figlia una frase che fu
ripetuta poi in famiglia ogni volta che qualcuno voleva fare di
testa propria: <<Annicchiuzza, ti lu maritasti, ora tenitillu!>>
Come possiamo
fare diventare quest’episodio un racconto? Proviamoci. Intanto
creiamo un esordio che ci spinga a raccontare come avvennero i
fatti, poi con la fantasia immaginiamo le varie sequenze.
<<Nella mia
famiglia ogni volta che qualcuno commette degli errori
disubbidendo ai consigli di chi è più anziano e quindi in grado
di capire e prevedere meglio gli avvenimenti futuri, si usa
ripetere una frase divenuta storica perché pronunziata da mio
nonno, il capostipite della famiglia. La frase di per sé non è
originale, anzi si tratta di un’espressione usuale nella nostra
terra di Sicilia, la sua originalità sta nell’aggiunta del nome
della persona a cui è riferita, un nome volutamente storpiato e
utilizzato in modo sarcastico e denigratorio. Ma, per
comprendere bene come si è svolta la vicenda, dobbiamo risalire
all’epoca in cui essa si è svolta e capire anche la mentalità
dei personaggi della vicenda.
Anna era da
giovane una ragazza molto piacente. Gli occhi scuri e
penetranti, la lunga chioma nera ondulata lasciata libera sulle
spalle, la bocca deliziosamente dipinta a forma di cuore, la
rendevano attraente agli occhi dei tanti giovanotti che
s’innamoravano di lei al primo sguardo. Per di più aveva un
portamento altero e un simpatico modo di camminare tanto che
avrebbe potuto fare l’indossatrice, se i tempi fossero stati
diversi, naturalmente.
Anna però
abitava in Sicilia in un paese ancora culturalmente arretrato
dove il padre decideva per tutti e dove i figli mai avrebbero
tentato di opporsi alle sue decisioni. Salvatore, il padre, su
questa figlia aveva cominciato a nutrire forti ambizioni.<<
Annuzza avi a studiari!- diceva- avi a fari la maestra di scola
!>>
Annuzza era
brava a scuola, era già avanti con gli studi e presto avrebbe
preso il diploma di maestra. Ma che successe a un certo punto
della storia? Successe che la brava e bella Anna s’innamorò. Va
bene, è giusto che ad un certo punto della vita una giovane
s’innamori, rientra nell’ordine naturale della vita. Ma la cosa
che fece fremere di rabbia i genitori di Anna, i miei nonni, e
soprattutto la cosa che fece saltare la mosca al naso a mio
nonno fu il fatto che Anna, che avrebbe potuto mirare in alto e
fare un buon matrimonio, si era innamorata di un giovane
scapestrato, un poco di buono, uno che non l’avresti dato come
marito neanche all’ultima ragazza che c’è sulla faccia della
terra.
<<Tu a me
figghia l’ha lassari stari!>> disse mio nonno al giovane quando
vide che stava un po’ troppo sotto le sue finestre. E da quel
momento in poi cominciò a tenere la figlia sotto chiave. Niente
più scuola, niente passeggiate con le amiche, niente uscite da
casa per nessun motivo.
Anna però era
innamorata. Il giovane era sempre nei suoi pensieri e
s’immaginava felice con lui in un continuo idillio che la vita
matrimoniale avrebbe consolidato. Non volle sentire ragioni.
Riuscì con uno stratagemma ad eludere la sorveglianza della
madre e una notte raggiunse l’innamorato a casa sua. Fu la
cosiddetta fuitina. Il padre alla fine fu costretto a cedere e a
dare l’approvazione per il matrimonio.
Anna si sposò
con il suo innamorato e per un certo tempo tutto sembrava
andasse bene. Sembrava. In realtà il marito di Anna era un tipo
geloso oltre ogni limite e mia zia si accorse subito che c’era
qualcosa che non funzionava nel suo matrimonio. Ogni giorno con
una scusa la picchiava e la malmenava accusandola di nutrire
delle simpatie per altri uomini. Anna non poteva frequentare
neanche la sua famiglia, tanto forte era nel marito la gelosia
nei riguardi di tutti quelli che avrebbero potuto distogliere
Anna dal suo affetto morboso e malato. Dopo più di un anno di
questa vita d’inferno, Anna scappò dalla casa coniugale e andò a
piangere dal padre. Si mise in ginocchio davanti a lui, lo pregò
piangendo e abbracciandogli le ginocchia.
<<Patri,
patri, pigghiami a la to casa!>>
Ed ecco la
risposta di mio nonno: <<Annicchiuzza, ti lu maritasti, ora tenitillu!>>
In vita sua mai aveva chiamato la figlia Annicchiuzza. Anna,
Annuzza, sì, ma mai Annicchiuzza. Il nonno usò allora un
diminuitivo particolare in tono dispregiativo e sarcastico,
come se, chiamandola in questo modo volesse farle capire i suoi
sbagli e le sue disubbidienze, le sue trasgressioni e il voler
fare di testa propria. E’ per questo motivo che ancora oggi
ripetiamo la frase del nonno e, ricordando la frase, cerchiamo
di trasmettere l’insegnamento che è connesso ad essa. Non sempre
le nostre scelte sono le migliori per la nostra vita.>> |